di Gualtiero Repossi - 15 May 2023

Bimota KB1: per palati esigenti

Grazie alla KB1 la Bimota si impone anche al pubblico “stradale” dopo aver conquistato il mondo delle corse con le sue esclusive realizzazioni da GP. Costruita dal 1978 al 1982 in tre versioni e in circa 800 esemplari, quasi tutti venduti sotto forma di kit, la KB1 è stato anche il primo modello prodotto dalla Casa riminese ad utilizzare un motore Kawasaki

“La potenza è nulla senza controllo”. Questo lo slogan coniato dalla Pirelli anni fa per una sua fortunata campagna pubblicitaria che vedeva protagonista il campione di atletica Carl Lewis, testimonial dei pneumatici italiani. Nei manifesti il fuoriclasse americano compariva in posizione di partenza per uno sprint immaginario con indosso un paio di scarpe da donna dai tacchi altissimi e assolutamente fuori luogo. Ovviamente il controllo a cui si riferiva la pubblicità era quello garantito dai pneumatici, unico contatto fra il mezzo meccanico-Carl Lewis e l’asfalto. Ed altrettanto ovvia la conclusione: anche la moto più potente disponibile sul mercato è destinata a non esprimere in pieno il suo potenziale se non indossa le “scarpe” giuste. Questo avviene sostanzialmente nel motociclismo moderno, dove le conoscenze sviluppate nel campo dei telai sono state assimilate da tutti i Costruttori nel corso degli anni. Ai giorni nostri è quasi impossibile sbagliare la ciclistica di una moto. Avvalendosi poi delle simulazioni al computer e dei moderni sistemi per il calcolo della distribuzione delle forze, il margine d’errore si è quasi annullato. Negli anni Settanta invece la situazione era completamente diversa. Se da un lato le gomme stradali offrivano prestazioni omogenee su tutti i modelli, questo discorso non era altrettanto valido per telai, freni e sospensioni. È storia ormai nota che le maxi giapponesi avevano dei motori esuberanti, accoppiati a telai sottodimensionati per le prestazioni di cui erano capaci. Un vizio ereditato dalle corse - basti pensare agli esperimenti tentati nel 1968 da Mike Hailwood con ciclistiche di fabbricazione inglese e italiana nel tentativo di migliorare la stabilità della propria Honda 4 cilindri 500 - e amplificato dall’inesperienza nel settore delle grosse cilindrate. Essere “ballerine” è stata una prerogativa che ha accompagnato più o meno tutte le sportive giapponesi del decennio, facendo la fortuna dei piccoli artigiani europei impegnati a migliorare il comportamento delle maxi del Sol Levante grazie a delle ciclistiche di assoluta eccellenza. La riminese Bimota è stata una di queste piccole Case, assurta a meritata notorietà grazie a una serie di modelli supersportivi, nati per girare sulle strade di tutti i giorni ma con un occhio puntato, se non entrambi, al mondo delle corse.

Presentata nel 1977 al Salone di Milano

Mettiamo per il momento da parte l’esordio in campo motociclistico della Bimota Meccanica - l’azienda fondata da Valerio Bianchi, Giuseppe Morri e Massimo Tamburini che all’inizio degli anni Settanta inizia a produrre componenti speciali per Honda e Kawasaki stradali e per le Yamaha TZ da GP - e concentriamoci su quello che, a nostro avviso, è il primo modello a fare breccia nel cuore degli appassionati e ad essere prodotto in un discreto numero di esemplari: la KB1 del 1978. La moto viene presentata al Salone di Milano nel novembre del 1977 assieme alla versione definitiva della SB1 con motore 4 cilindri Suzuki GS 750, che ha già avuto gli onori della ribalta al Motor Show dell’anno precedente, attirando l’attenzione di appassionati e addetti ai lavori. Ma se la SB2 continua a convincere poco per via delle sue linee forse un po’ troppo futuristiche e in alcuni suoi particolare decisamente abbondanti, la KB1 conquista invece subito tutti. Ha le forme essenziali di una vera moto da corsa, è leggera come mai è stata una sportiva stradale ed è spinta da uno dei più potenti motori in circolazione in quegli anni: il 4 cilindri Kawasaki, che poteva essere utilizzato indifferentemente nella vecchia versione di 900 uscita di scena nel 1976 o in quella portata a 1.000 cc presentata l’anno seguente. Un propulsore che si era costruito nella prima metà degli anni Settanta una solida reputazione nelle gare di Endurance grazie ai successi delle celebri Godier-Genoud, . Il pezzo forte della moto disegnata da Massimo Tamburini è ovviamente la sua ciclistica. Fedele allo schema del telaio a traliccio perimetrale con tubi d’acciaio al cromo-molibdeno, che permette di ottenere una struttura molto rigida utilizzando il motore come parte stressata della ciclistica, sulla KB1 Tamburini abbandona però la soluzione del fulcro del forcellone coassiale all’uscita del pignone - già utilizzata sui modelli precedenti sia da strada che da pista - perché l’ingombro eccessivo del blocco motore Kawasaki non lo consente. Eliminato anche il sistema di accoppiamento del telaio a innesti conici che, fissato da tre viti a brugola per ogni lato, consente sulla coeva SB2 di scomporre rapidamente in due parti il telaio a traliccio, facilitandone l’asportazione o gli interventi sul motore.

Il telaio, con il forcellone, pesa 16 kg

Il telaio a traliccio, completo di forcellone scatolato dotato di capriata di rinforzo, pesa 16 kg e contribuisce in maniera decisa alla riduzione della stazza della KB1 rispetto al modello di serie (si parla di un risparmio di oltre 40 kg), grazie anche al massiccio impiego dell’avional per le piastre di sterzo, per le pedane con i relativi comandi, per i semimanubri regolabili e per i 4 eccentrici montati sul forcellone che permettono di regolare il tiro catena e di variare le quote d’interasse. Tutti particolari ricavati dal pieno e realizzati con una cura certosina. Il “vestito” della KB1 è invece realizzato interamente in vetroresina, serbatoio da 23 litri compreso, ed è opera dello stesso Tamburini. Le ruote in magnesio a cinque razze di disegno stellare sono prodotte dalla Campagnolo, ma su disegno e specifiche Bimota. La KB1 è stata costruita in tre serie dal 1978 al 1982, per un numero complessivo di circa 800 esemplari. Dato che per la fornitura dei motori non esisteva nessun accordo commerciale fra Bimota e Kawasaki Italia, a quei tempi con sede a Genova e diretta da Marino Abbo (come spiega Tamburini nel box), in realtà quasi tutte le KB1 sono state vendute sotto forma di kit, attingendo al modello di serie per diversi componenti o da quanto di meglio offriva all’epoca il mercato “aftermarket” per quanto riguardava freni e sospensioni. Proprio perché veniva proposta in kit, l’allestimento della KB1 offriva infinite variazioni nella scelta della componentistica e ogni esemplare giunto fino ai giorni nostri appare personalizzato e diverso dagli altri. Un’esempio? Per contenere i costi, la versione base montava la forcella Kayaba standard da 36 mm, spesso verniciata di rosso, assieme ai freni Tokico della Z 1000. Ma era disponibile uno “step” più tecnico che comprendeva forcella teleidraulica Marzocchi da 36 mm (o in alternativa Ceriani da 35 mm) e freni Brembo Serie Oro forati, con pinze alleggerite. Di derivazione Kawasaki sono anche la strumentazione completa e i blocchetti elettrici, ma in molti preferivano utilizzare solo il contagiri - spesso nemmeno quello della Z 1000 - e le indispensabili spie di servizio. Il monoammortizzatore posteriore regolabile è prodotto invece dalla Corte & Cosso su licenza della francese De Carbon, famosa in quegli anni soprattutto per i suoi ammortizzatori usati sulle vetture di F1. È montato quasi orizzontalmente e può sfruttare due differenti punti di ancoraggio che variano automaticamente l’altezza del retrotreno. Tutta questa qualità costruttiva ha un prezzo piuttosto elevato: nel 1978 la KB1 completa viene messa in vendita a 7.500.000 lire su strada, più del doppio di quanto richiesto per acquistare la Kawasaki Z 1000 (3.578.000 lire). Più accessibili, si fa per dire, i due kit. Quello base costa 2.800.000 lire, a cui bisogna aggiungere l’IVA al 14% che fa lievitare il suo prezzo a 3.192.000 lire, mentre il più pregiato kit A costa invece 3.200.000 lire (3.648.000 lire IVA compresa).

La seconda serie del 1980 è stata la più venduta

Nel 1980 vengono fatte alcune piccole modifiche alla KB1, che fa la sua comparsa sul mercato con una seconda serie, mantenendo il ricco catalogo di parti e componenti speciali allestito per la prima. In realtà si tratta di interventi di poco conto che trovate spiegati più dettagliatamente nel box dedicato: nuove grafiche, un codone più compatto, il serbatoio dal nuovo disegno prodotto anche in alluminio anziché in vetroresina per soddisfare le norme di omologazioni imposte dal mercato tedesco. Ma soprattutto la possibilità di richiederla nella versione biposto, caso più unico che raro per le Bimota degli anni Settanta e inizio anni Ottanta. Un optional che però non riscuote alcun successo e che passa decisamente inosservato. La KB1 seconda serie è comunque quella costruita nel maggior numero di esemplari (570 per la precisione, di cui 362 con il kit A “full-optional”) e lascia spazio alla terza serie nel 1982. Questa si distingue principalmente per il codone nuovamente monoposto, per la carenatura scomponibile in due pezzi (ma per togliere la parte inferiore bisogna sollevare la moto sul cavalletto tipo corsa perché non c’è abbastanza luce a terra...) e per le ruote Campagnolo in magnesio di nuovo disegno.

La KB1 con il kit Termignoni

Resta in listino per un paio di stagioni e con un piccolo incremento nel prezzo prima di lasciare spazio alle nuove realizzazioni della factory riminese motorizzate Kawasaki e Suzuki. A questo punto, per tracciare un bilancio completo della KB1 servirebbe un bel test, corredato dalle prove strumentali registrate allora. Ma qui iniziano i problemi: immatricolare e targare una KB1 come fanno oggi le Case motociclistiche risultava essere troppo dispendioso per un’azienda di così piccole dimensioni come è la Bimota nel 1978. Oltretutto, come più volte ripetuto, sono pochissime le KB1 vendute già montate e non sotto forma di kit. Ecco allora che in soccorso dei tester della rivista Motociclismo arriva nel 1978 il fortunato possessore di una KB1, pronto a metterla a disposizione per i rilevamenti. Purtroppo però la moto in oggetto è stata vitaminzzata anche nel motore, con l’adozione di un kit della Termignoni che ha portato la sua cilindrata a 1.200 cc. Impossibile quindi un confronto diretto fra le prestazioni della Bimota e quelle della Kawasaki Z 1000 da cui eredita il motore. Su una cosa però i tester concordano: la KB1 è adatta ad un pubblico smaliziato, abituato ad andare forte su strada e in pista. E senza la necessaria esperienza la Bimota risulta impacciata e instabile sul veloce, ovvero sul terreno ideale dove invece dovrebbe fare la differenza rispetto al modello di serie. Richiede quindi un certo periodo di affiatamento e di regolazioni “personalizzate” per sistemare al meglio la ciclistica. Come si addice ad una vera moto da corsa “stradalizzata”, destinata ai palati esigenti.

Caratteristiche tecniche

Motore: 4 cilindri in linea frontemarcia, 4 tempi, raffreddato ad aria, testa e cilindri in lega leggera con canne riportate in ghisa, distribuzione bialbero a camme in testa comandate da catena centrale, 2 valvole per cilindro (ø valvola di aspirazione 36 mm, ø valvola di scarico 30 mm), manovelle a 180°. Alesaggio per corsa 70x66 mm, cilindrata 1.015 cc. Rapporto di compressione 8,7:1. Potenza max 83 CV a 8.000 giri; coppia max 8,1 kgm a 6.500 giri. Lubrificazione: a carter umido, con pompa di mandata e recupero. Capacità coppa 3,7 litri. Filtro aria a cartuccia. Alimentazione: 4 carburatori Mikuni VM 26 SS da 26 mm; getto max 107,5, getto minimo 17,5, polverizzatore 0,8, spillo conico 5CN8-3 alla 3ª tacca, vite aria aperta di un giro e un quarto, livello galleggiante 32 ± 1 mm. Accensione: con ruttore a due coppie di contatti e doppio spinterogeno. Distanza fra i contatti 0,3-0,4 mm. Candele NGK B-8ES. Avviamento: elettrico e a kickstarter. Trasmissione: primaria ad ingranaggi a denti dritti, rapporto 1,73; finale a catena. Frizione: multidisco in bagno d’olio. Cambio: in blocco a 5 rapporti con comando sulla sinistra. Valore rapporti: 3,17 in prima, 2,19 in seconda, 1,67 in terza, 1,38 in quarta e 1,22 in quinta. Telaio: a traliccio perimetrale con tubi in acciaio al cromo molibdeno. Sospensioni: anteriore forcella teleidraulica Kayaba ø 36 mm o in alternativa forcella teleidraulica Ceriani ø 35 mm, oppure Marzocchi ø 36 mm. Posteriore forcellone oscillante in tubi d’acciaio al cromo molibdeno a sezione rettangolare e monoammortizzatore regolabile Corte & Cosso. Freni: anteriore a doppio disco Kawasaki da 250 mm con pinza Tokico a singolo pistoncino oppure a doppio disco forato Brembo da 280 mm con pinze a doppio pistoncino; posteriore a disco Kawasaki da 250 mm con pinza Brembo a doppio pistoncino oppure a disco forato Brembo da 260 mm con pinza Brembo a doppio pistoncino. Ruote: a razze stellari in magnesio. Anteriore 2.50-18”, posteriore 4.00-18”. Pneumatici: anteriore 100/90-18, 4.70-18 posteriore. Dimensioni (in mm) e peso: lunghezza max 2.040, larghezza max 725, interasse 1.390, altezza max 1.160, altezza sella 810, altezza pedane da terra 410, luce a terra 160. Peso a vuoto 193 kg.

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