AMF Harley-Davidson FLH 1200 Electra Glide: all american bike

La più classica e opulenta fra le Harley-Davidson è l’Electra Glide, nata nel 1965 e ancora oggi in produzione. Vera icona del motociclismo a stelle e strisce, è diventata negli anni un fenomeno di costume, fedele alle sue esagerazioni cromatiche e accessoristiche

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La Electra Glide del 1975-1976 è stata costruita in 7.400 esemplari

L’arrivo massiccio delle Case giapponesi sul mercato all’inizio degli anni Settanta stravolge gli equilibri esistenti nell’universo motociclistico fino allora conosciuto. Le maxi moto del Sol Levante spostano molto più in alto l’ideale asticella che fissa i limiti di qualità, cilindrata e prestazioni del prodotto, costringendo gli altri ad inseguire.

Lo fanno gli italiani con Moto Guzzi, Laverda e Ducati, i tedeschi della BMW e anche gli inglesi. Non lo fanno invece gli americani, la cui industria motociclistica all’epoca è ridotta alla sola Harley-Davidson.

Gli USA negli anni Settanta costituiscono per le due ruote il più grande mercato del pianeta ed è proprio lì che è iniziata la conquista dei giapponesi, ma a Milwaukee sembrano non accorgersi che i tempi sono cambiati.

In realtà le cose non stanno proprio così perché i vertici della H-D capiscono benissimo quanto sta accadendo, ma non hanno le risorse tecniche ed economiche per fronteggiare il cambiamento.

L’azienda non naviga in buone acque. Dopo l’acquisizione dell’Aermacchi nell’aprile del 1960 con l’obiettivo di conquistare quote di mercato nelle piccole cilindrate, gli investimenti e lo studio di nuovi modelli non procedono alla velocità richiesta dagli eventi. La presentazione della FLH Electra Glide nel 1965 e l’arrivo di motori più potenti dotati delle nuove teste Shovelhead l’anno seguente sono le ultime grandi novità.

La direzione della H-D, ancora guidata dagli eredi dei vecchi fondatori, appare stanca e demotivata, al punto da decidere la cessione dell’azienda.

Acquisizione da parte di AMF

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La moto che proponiamo in queste pagine è stata venduta nel 1976, anno del Bicentenario della Rivoluzione statunitense. Per questo motivo porta sulle borse laterali (caso unico nella storia dell’Harley) l’anno di produzione

Nel 1969 l’Harley-Davidson cambia così proprietà e viene rilevata per una cifra attorno ai 22 milioni di dollari dall’AMF, acronimo di American Machine & Foundry, un colosso industriale con interessi in molteplici settori.

I businessmen dell’AMF “fanno affari facendo affari” e non “fanno affari costruendo moto”. Una differenza sostanziale che mette da parte la passione per le due ruote dando altre priorità operative: innanzitutto bisogna aumentare la produzione per recuperare quote di mercato, poi è necessario tagliare le spese, ma soprattutto vanno concentrati gli investimenti in quei campi strettamente indispensabili, come ad esempio le nuove norme antinquinamento entrate in vigore negli USA all’inizio degli anni Settanta.

L’impegno economico è comunque massiccio - considerando che per tutto il periodo che va dal 1969 al 1981, l’AMF destina all’Harley-Davidson diversi milioni di dollari - ma la cura non è indolore. Se da un lato la produzione viene razionalizzata, grazie all’acquisto di nuovi macchinari e all’introduzione di più moderni cicli di lavoro, dall’altro buona parte degli uffici tecnici, dell’amministrazione e persino di alcune unità produttive, vengono trasferite da Milwaukee a York, in Pennsylvania, dove l’American Machine & Foundry possiede un modernissimo impianto di 92.000 m², con le pesanti conseguenze sotto il profilo occupazionale facilmente immaginabili nella storica sede in Wisconsin.

Per giustificare gli scarsi investimenti si decide di puntare tutto sulla conservazione della tradizione. Nel senso che l’Harley-Davidson si erge come ultimo baluardo della “vera” motocicletta a stelle e strisce. Il messaggio, subito ripreso dalle riviste specializzate d’oltreoceano, è semplice ma efficace: “Le moto giapponesi ed europee sono bellissime e ricche di innovazioni, ma siamo sicuri - chiede l’AMF - che siano ciò che desidera il motociclista americano?”

Per lui la H-D mette a disposizione una gamma articolata, che parte dai modelli di piccola cilindrata prodotti dalla ex Aermacchi, ma punta soprattutto sui grossi V-Twin.

I numeri del mercato danno inizialmente ragione alle scelte dell’AMF: se nel 1970, prima annata completa della nuova proprietà, la produzione complessiva era stata di 28.850 unità, nel 1973 è già arrivata a 79.903 motociclette. Nel 1975 c’è però la prima flessione e la cifra scende a 75.403 esemplari senza più riprendere quota per il resto degli anni Settanta. Si inizia ad avvertire una certa avversione nei confronti di una gamma “orfana” di investimenti radicali e quindi priva di novità in un mondo (a due ruote) che si muove ad un ritmo frenetico e compulsivo.

Nel 1981 AMF esce di scena

Il calo della produzione prosegue inarrestabile: 61.375 moto nel 1976, 45.608 nel 1977 e 41.586 nel 1981, anno in cui l’AMF esce di scena rivendendo l’Harley-Davidson a una cordata facente nuovamente capo ad alcuni eredi dei fondatori del Marchio. Con il loro ritorno c’è un cambio di rotta: l’H-D prosegue nell’ergersi baluardo in difesa della “vera” motocicletta americana come ai tempi dell’AMF, ma l’immagine che offre la nuova gestione è quella del rinnovamento nel solco della tradizione. Ovvero vengono presentate numerose novità in tutta la gamma - come il cambio a 5 marce, la trasmissione finale con cinghia in Kevlar e il montaggio elastico del motore - per proiettare l’azienda negli anni Ottanta.

Il nuovo corso viene inaugurato il 26 febbraio 1981, giorno del passaggio di consegne da parte dell’AMF, e prosegue ancora oggi, dato che la Casa americana ha trovato una propria dimensione sul mercato motociclistico, al riparo dalle mode del momento e della concorrenza insostenibile con l’industria giapponese.

Sono numerosi i modelli dell’Harley-Davidson che hanno vissuto questo periodo, a tratti difficile ma sicuramente transitorio nella sua storia. Uno in particolare però, nato nel 1965 e ancora oggi in produzione, incarna meglio degli altri i canoni della “vera” motocicletta americana tanto caro alla Casa di Milwaukee: la già citata FLH Electra Glide.

Ricchissima di cromature e accessori, disponibile in un lungo elenco di versioni, la FLH è quella che soffre in misura maggiore i 12 anni di gestione AMF, quando la logica dell’austerità e quella dei grandi numeri di produzione peggiora la qualità (e l’affidabilità) dell’intera gamma. Eppure esce da questo periodo a testa alta. Anzi, paradossalmente, il suo mito ha preso quota proprio negli anni Settanta. Come abbiamo accennato l’Electra Glide vede la luce nel 1965, quando viene introdotto l’avviamento elettrico sulla Duo Glide, presentata nel 1958 e prima Harley dotata di telaio elastico, a sua volta evoluzione della precedente Hydra Glide del 1949. Fra i tre modelli l’unico elemento in comune è il concetto di maxi-tourer che viene ripreso, perché per il resto cambia praticamente tutto: telaio, sospensioni, freni e tipo di motore.

Quello dell’Electra Glide inizialmente è il V a 45° di 1.200 cc tipo Panhead - (“testa a tegame” per via dei coperchi delle punterie vagamente somiglianti a dei tegami da cucina) nato di 1.000 cc nel 1948 e successivamente cresciuto di cubatura che all’epoca è la massima cilindrata disponibile in tutta la produzione motociclistica mondiale. Un motore robusto, generosamente lubrificato e relativamente leggero grazie all’utilizzo dell’alluminio, impreziosito dalle punterie idrauliche che mantengono costante il gioco delle punterie anche in presenza di notevoli dilatazioni termiche dei cilindri.

Nel 1966 debutta il motore Shovelhead

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Il motore Shovelhead è più potente del Panhead: 60 CV nella versione FL e 65 in quella FLH e mantiene lo stesso cambio a 4 rapporti e il comando idraulico delle punterie. La sua fama di scarsa affidabilità deriva dalla modesta cura costruttiva e dal minor controllo qualità della gestione AMF piuttosto che da difetti congeniti di progettazione

Nel 1966 però il Panhead viene sostituito da un nuovo motore denominato Shovelhead (“testa a pala”, per distinguerlo dal precedente) che debutta proprio sulla Electra Glide e va poi ad equipaggiare il resto della gamma, rimanendo in produzione per 18 anni.

Pur riprendendo buona parte delle caratteristiche tecniche del suo predecessore - alesaggio e corsa rimangono immutati - lo Shovelhead è più potente (65 CV a 5.200 giri) e ha un maggior rapporto di compressione (8:1). Meccanicamente conserva la distribuzione con le punterie idrauliche comandate da aste e bilancieri, il cambio separato a 4 velocità, il motorino di avviamento che ingrana direttamente sulla campana frizione, l’accensione a spinterogeno, il grosso carburatore centrale (si inizia con un Tillotson, per poi passare ad un Bendix ed infine arrivare, suscitando l’ira dei puristi, a un giapponese Keihin nel 1974).

Il motore Shovelhead è però piuttosto affamato d’olio - la casa ritiene normale un consumo di 1 kg di lubrificante ogni 800-1.000 km - e vibra in maniera decisa. Le tipiche “good vibrations” tanto care agli estimatori del bicilindrico Harley qui sono più dannose del solito e accorciano la vita del motore, perché associate all’incremento del 15% della potenza rispetto al predecessore e al fatto di vivere quasi tutta la sua carriera nel periodo di gestione AMF.

Carburatori a parte, le uniche modifiche sullo Shovelhead arrivano nel 1969 alla vigilia del cambio di proprietà dell’azienda e consistono nell’adozione di un basamento più robusto e di un più efficiente alternatore da 120W in luogo della dinamo a comandare il tradizionale spinterogeno con una sola coppia di puntine.

Quello che invece cambia con maggior frequenza nel corso degli anni è quanto ruota attorno al V- Twin di 1.200 cc, veste estetica soprattutto dato che l’Electra Glide può essere richiesta scegliendo fra moltissime varianti ed optional.

La prima FLH del 1965 nasce già con gli accessori indispensabili a viaggiare comodi: il sellone biposto con molleggio indipendente e regolabile (in verità non così spazioso come sembra se si viaggia in due) e il primo “Touring Package”, composto da una coppia di borse laterali in vetroresina e da un parabrezza fissato ai foderi forcella.

La prova di Motociclismo del 1977

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Una FLH del 1977 dotata di kit King of the Road Package completo e ruote in lega. La sella è ora più ampia, con i due posti separati fra loro. All’epoca in Italia era venduta a 5.300.000 lire

Il giudizio di Motociclismo ad esempio, che prova l’Electra Glide versione 1977, è impietoso. Dopo un preambolo introduttivo che sembra giustificarne l’esistenza - “Le fortune dell’Harley-Davidson Electra Glide 1200 dipendono da alcuni fattori ambientali tipicamente USA. L’ostentazione del benessere sino ai limiti dell’assurdo, la ricerca della comodità più sibaritica, i bassissimi limiti di velocità, la rete autostradale con larghi rettilinei a perdita d’occhio e la spiccata simpatia degli americani per il prodotto americano” - arriva l’affondo impietoso: “Quando si aziona il motorino di avviamento sembra di avviare un camion, non parliamo poi di quando si suona il clacson tipo corriera. Spostare una moto di questo peso comporta un nutrito repertorio di pepate imprecazioni e solo persone di una certa corporatura sono in grado di eseguire queste manovre senza rovesciarsi addosso i tre quintali e mezzo di questa cavalcatura.

Quando l’Harley è in moto, tra il rumore di scarico, le vibrazioni del serbatoio, delle borse e del parabrezza, si forma un concerto tale di ferraglie che oltre ad insospettire circa l’integrità dell’imbiellaggio, raggiunge un livello di decibel sicuramente vietato a qualsiasi moto giapponese o italiana importata negli USA.”

E poi: “Peso esagerato di tre quintali, vibrazioni intollerabili sopra i 100 km/h, cambio dalla corsa troppo lunga, catena della trasmissione finale da registrare assiduamente. Indecente il comportamento in curva per l’impossibilità di piegare in quanto strisciano subito al suolo pedane, marmitte e quant’altro”.

Ci sono però anche i pregi, pagati a caro prezzo (nel 1977 l’Electra Glide in Italia costa 5.400.000 lire): comodità sopra la media, sorprendente maneggevolezza nonostante il peso, ma soprattutto la consapevolezza di essere in sella ad un mezzo esclusivo che non fa passare inosservati.

Blockhead: il motore in alluminio di 1.340 cc

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Nel 1983 il motore di 1200 va in pensione, sostituito dal nuovo Blockhead con cilindrata portata a 1.340 cc. In realtà anche lo Shovelhead aveva raggiunto questa cubatura nel 1978, sulla versione Special Edition 75th Anniversary Electra Glide per i 75 anni della Casa di Milwaukee

La carriera della FLH con motore Shovelhead 1200 prosegue fino al 1983, ma il suo destino è segnato con il nuovo corso dell’azienda voluto dal ritorno dei Davidson ai vertici della società: rinnovamento nel solco della tradizione. Ecco che allora l’Electra Glide riceve finalmente il nuovo motore Blockhead, tutto in alluminio, di 1.340 cc che mantiene le caratteristiche del precedente (ancora V di 45°, stessa distribuzione, cambio separato, lubrificazione a carter secco) ma che, grazie all’attenzione nella progettazione e realizzazione di ogni più piccolo particolare, raggiunge la completa affidabilità e funzionalità che non aveva il vecchio Shovelhead. Tutta un’altra moto e decisamente un’altra storia.

Caratteristiche tecniche (versione 1976)

Motore: bicilindrico a V di 45° longitudinale, 4 tempi, raffreddamento ad aria. Testa e cilindro in ghisa. Distribuzione a valvole in testa comandate da aste e bilancieri con asse a camme nel basamento e punterie idrauliche. Alesaggio per corsa 87,3x100,8 mm. Cilindrata totale 1.207 cc. Rapporto di compressione 8:1. Potenza max 66 CV a 5.200 giri. Accensione: a spinterogeno con anticipo automatico (35°). Avviamento: elettrico con motorino che ingrana sulla corona della frizione.

Lubrificazione: a carter secco, con doppia pompa ad ingranaggi di mandata e recupero. Capacità serbatoio olio 4 kg.

Alimentazione: un carburatore Keihin. Trasmissione: primaria a catena duplex in bagno d’olio con lubrificazione forzata e parastrappi sull’albero motore. Finale a catena. Rapporti totali di trasmissione 10,74 in prima; 6,50 in seconda; 4,39 in terza e 3,57 in quarta. Frizione: multi disco a secco. Cambio: separato a quattro rapporti con ingranaggi sempre in presa. Disponibile come optional un cambio a tre rapporti più retromarcia, comandato da leva a fianco del serbatoio.

Telaio: doppia culla chiusa in tubi d’acciaio. Sospensioni: anteriore forcella teleidraulica Hydra-Glide; posteriore forcellone oscillante con 2 ammortizzatori idraulici regolabili sul precarico molla. Supporto sella ammortizzato con ammortizzatore telescopico regolabile. Freni: anteriore e posteriore a disco da 254 mm con comando idraulico. Impianto elettrico: a 12V con batteria 12V-53Ah; alternatore da 120W. Ruote: anteriore e posteriore a raggi con cerchi in acciaio da 16”. Pneumatici: anteriore e posteriore 5.00-16. Dimensioni (in mm) e peso: lunghezza massima 2.530, interasse 1.530, larghezza massima 850, altezza manubrio alle manopole 950, altezza sella 850, altezza pedane 250, luce a terra 130. Peso a vuoto 310 kg.

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