La moto prende rapidamente forma e il 27 ottobre 1972 viene presentata alla stampa presso il lussuoso hotel Canal Grande di Modena, quartier generale di De Tomaso. Lo stupore e l’entusiasmo iniziali diminuiscono però di mese in mese: il tanto atteso avvio della produzione, promessa per la primavera del 1973, ritarda inesorabilmente per diversi motivi.
Innanzitutto c’è il problema motore. La “copiatura” è veloce, ma le modifiche necessarie per il trapianto dei due cilindri in più non lo sono altrettanto. I sei carburatori Dell’Orto ad esempio faticano ad entrare in sintonia fra loro e richiedono una messa a punto attenta e costante. Il problema viene superato solo con l’adozione di tre carburatori, uno per ogni coppia di cilindri.
L’altro aspetto negativo che deve affrontare Prampolini riguarda la componentistica. I fornitori di parti vitali inizialmente scelti dal tecnico quali la Montepilli di Torino per l’albero motore e la Cima di Bologna per gli ingranaggi offrono garanzie assolute. Tanto che i prototipi della Sei macinano chilometri senza evidenziare particolari problemi se non qualche difetto di gioventù a cui è facile porre rimedio. Ma eccellenza non si sposa con economia: le aziende italiane non sono in grado di fornire particolari di un certo livello a prezzi... modici: un ostacolo non da poco se si considera che si sta lavorando al progetto di una motocicletta che dovrebbe rappresentare la massima espressione nel campo delle due ruote. Occorre mettere in produzione al più presto la 750 che, malgrado ogni sforzo, costa già parecchio più della concorrenza.
Così, pur con grave ritardo rispetto alla presentazione, la 750 Sei viene messa sul mercato nel 1974 accompagnata dalle prime delusioni. Le finiture sono solo discrete, la componentistica è di qualità modesta e gli assemblaggi approssimativi.
Ma più preoccupanti sono i problemi meccanici. I difetti di gioventù si sono tramutati in problemi più seri: si verifica una precoce usura delle camme, il consumo d’olio non scende mai sotto 1 kg ogni 1.000 km, i cilindri patiscono fastidiosi trafilaggi e anche le forchette del cambio si consumano facilmente compromettendone la manovrabilità fino al bloccaggio. Per non parlare dell’impianto elettrico che spesso e volentieri fa le bizze, soprattutto quando piove.
Cosa è successo dunque al momento dell’industrializzazione della sei cilindri, dato che i prototipi non andavano affatto male?
Una risposta la si trova in parte ripercorrendo le fasi della realizzazione della moto. Il progetto e la costruzione dei primi prototipi avviene a Pesaro, sotto la guida di Prampolini che, come abbiamo detto, sceglie materiali di prim’ordine per il motore, affidandosi ad aziende specializzate.
Ma al momento dell’industrializzazione De Tomaso affida la costruzione del motore alla Moto Guzzi e lascia a Pesaro il solo assemblaggio. E a Mandello si decide di utilizzare il materiale già disponibile o produrlo in casa per contenere i costi. Forchette del cambio e ingranaggi vengono realizzati in acciaio al piombo e non legato e di conseguenza meno resistente; i pattini dei bilancieri vengono cromati con un procedimento poco raffinato, con il risultato che lo strato di cromo di stacca anche dopo percorrenze modeste e le camme si usurano precocemente.
Questa politica “al risparmio” contribuisce ad affossare commercialmente la Benelli Sei, in quanto certi difetti, su una moto costosa che deve rappresentare il massimo della tecnica motociclistica, appaiono inaccettabili. Perché allora acquistarne una oggi?