Al momento della sua commercializzazione in Italia, nella primavera del 1985, la Yamaha FZ 750 è assieme alla Suzuki GSX-R 750 la maxi più costosa sul mercato. Si vende bene ma non benissimo, forse perché i motociclisti temono che un motore così sofisticato e potente sia anche poco affidabile e dopo appena una stagione viene subita sottoposta ad un restyling che interessa soprattutto l’estetica della moto grazie a nuove colorazioni, un puntale, il tappo del serbatoio incassato di tipo aeronautico e un orribile maniglione per il passeggero.
Con le successive versioni invece inizia progressivamente la sua metamorfosi: da supersportiva in sport-tourer, perché nel frattempo - soprattutto dopo la nascita del Mondiale Superbike nel 1988 - il settore si estremizza portando alla realizzazione di vere e proprie moto da corsa targate. L’FZ 750 guadagna così uno scarico 4 in 1 più aggressivo (e di miglior qualità), nuovi cerchi (gli stessi della FZR1000 con l’anteriore da 17” anziché da 16” e la posteriore con il canale più largo), nuove pinze e dischi freno e una estesa carenatura che ne nasconde il motore. Con l’introduzione del 4 in 1, nel 1987, il motore riceve anche pistoni, spinotti e fasce elastiche alleggerite del 13% e guadagna una manciata di CV grazie anche a un nuovo diagramma di distribuzione. Sono gli unici interventi al 4 cilindri nel corso della sua carriera durante la quale, prima di trasformarsi in sport-tourer e di lasciare spazio in pista alla più specialistica 0W01 a partire dal 1989, l’FZ 750 è protagonista di una breve parentesi sportiva in cui raccoglie ottimi risultati, raggiungendo se vogliamo anche gli obiettivi del progetto originario 064 con cui era nata.
Nel 1986 Eddie Lawson conquista la 200 Miglia di Daytona, mentre grazie agli australiani Michael Dowson e Kevin Magee una FZ “kittata” chiude al secondo posto la 8 Ore di Suzuka dello stesso anno tenendo testa alle Honda RVF750 ufficiali schierate dall’HRC. Infine, nel 1988, Fabrizio Pirovano chiude al secondo posto la prima edizione del Mondiale Superbike e al terzo il Campionato italiano della categoria.
Con qualche altro piccolo intervento che va ad interessare ancora l’estetica della moto, la Yamaha FZ 750 esce di scena all’inizio degli anni Novanta dopo una produzione complessiva di 39.000 unità nelle diverse versioni in cui è stata proposta al pubblico. Il suo quattro cilindri invece è il capostipite di tutta la serie successiva FZR1000 che fra la fine degli anni Ottanta e i Novanta permette alla Casa di Iwata di essere protagonista nel mercato delle supersportive, mentre i suoi concetti si ritrovano anche nei motori della serie YZF750 e in quelli R1. La distribuzione a venti valvole infatti “resiste” fino al 2006, ma se all’inizio della sua carriera veniva portata come esempio di raffinatezza ed esclusività meccanica, vede progressivamente ridursi l’interesse nei suoi confronti fino ad arrivare a metterne in dubbio la sua effettiva utilità.
Dopotutto, se la testa con cinque valvole per cilindro è così efficace, perché nessuno altro costruttore giapponese ha pensato di adottarle sui suoi 4 cilindri supersportivi? Probabilmente perché il vantaggio offerto a metà degli anni Ottanta nell’ottimizzare il riempimento delle camere di scoppio a tutti i regimi è stato raggiunto in seguito anche con normali teste a quattro valvole, studiando la conformazione ottimale delle camere, la forma e i materiali delle valvole dei motori tradizionali e rendendo quindi superflua quella valvola in più.
Dopotutto, come ricordava sempre Colin Chapman, l’indimenticabile fondatore della Lotus di F1: “quello che non c’è in un motore non si rompe. E lo fa pesare di meno...”
La Yamaha comunque continua a credere alle venti valvole fino al nuovo millennio, quando fa debuttare sulla sportivissima R1 un nuovo 4 cilindri con “solo” 16 valvole come la concorrenza, contraddicendo il dirigente Ducati che ipotizzava l’uscita di scena delle 20 valvole solo in presenza di una valida alternativa in termini di originalità per soddisfare il marketing.
Questa arriva poco più di due anni dopo con la presentazione della R1 “Big Bang”, ovvero una moto con il motore dotato di fasatura a scoppi irregolari. La nuova scelta tecnica è dettata dalla necessità di avere una migliore risposta del motore in uscita di curva, grazie a una notevole spinta ai bassi e medi regimi e l’ausilio di moderni apparati elettronici (l’attuale R1 può vantare l’acceleratore elettronico “ride by wire”, diverse mappature per il motore e il controllo di trazione). Purtroppo, il quattro cilindri “Big Bang” necessita però di un albero motore con disposizione a croce dei piedi di biella più pesante di uno tradizionale, che contribuisce ad aumentare il peso della moto sopra la media delle avversarie (199 kg la versione 2012).
Se confrontiamo l’FZ 750 del 1984 con la R1 “Big Bang” del 2009 ci troviamo quindi di fronte a due modelli simili nell’impostazione: entrambi i loro motori cercano il tiro in basso di cui difettano tradizionalmente i 4 cilindri; entrambe le moto sono più pesanti delle rivali, ma tutte e due possono vantare una soluzione tecnica esclusiva per il loro motore. Se poi questa sia dettata da una reale necessità o da questioni di immagine è un dilemma attuale oggi come quasi trent’anni fa.
Abbiamo aperto il nostro articolo con una dichiarazione a “microfoni spenti” e vogliamo concluderlo con un’altra simile, fatta questa volta nel 2009 da un tecnico Yamaha da anni al lavoro sui motori R1 in versione Superbike che ci lascia con il dubbio che a spingere verso certe decisioni sia comunque sempre il marketing:“A volte le scelte della Yamaha sono inspiegabili. Hanno impiegato più di vent’anni per liberarsi del motore a 20 valvole e adesso, dopo appena un paio di stagioni normali con un bel motore, vanno a complicarsi la vita senza motivo con il Big Bang per scimmiottare la MotoGP”.